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“Lo spirito dell’artista nel marmo trovato”

Alberigo Tuccillo

Non è certo un portento di eloquenza, un architetto di leziosi e contorti periodi involuti a doppio senso, né è particolarmente virtuoso nel difendere i propri principi di estetica e né tantomeno è uno di quegli ispidi provocatori la cui arte per lo più consiste nel saper scegliere l‘eccentricità e la stravaganza più idonea a riempire della propria immagine teleschermi e carta stampata. La laconicità di Daniele Aletti – artista posato e austero, di origine bergamasca e tuttora radicato nella lingua e nella cultura italiana benché nato e cresciuto in Svizzera – è perfino contagiosa: succede anche a me, standogli vicino, di cominciare ad allineare ostinatamente semplici proposizioni principali e nemmeno le temute lunghe pause fra di esse riescono più ad infastidirmi.
Ma che cos‘ha a che fare con la scultura questo suo ascetismo linguistico? – Apparentemente poco, proprio come il fatto che fra gli artisti da Daniele Aletti preferiti e attentamente studiati per anni ed anni, non ve ne sia neanche uno i cui lavori abbiano la più pallida somiglianza con le sue sculture, in un primo momento potrebbe sembrare una mancanza di coerenza. Andando al fondo però, ogni cosa ha una semplice spiegazione
L‘ uso che Aletti fa del suo linguaggio – anzi: delle sue lingue – ricorda il suo modo di scegliere la pietra, il modo di scolpirla, di trattarla, di intuime le potenziali forme, quindi di scovarle e metterle a nudo: e tutto ciò scaturisce da un impeto artistico profondamente coerente, onesto e originale. Se nell‘ esprimere un qualsiasi concetto l‘ artista è solito astenersi da ogni sorta di manierismo verbale, attendendo invece di trovare il vocabolo più indovinato, la formulazione più limpida, la frase lapidaria, libera da inutili involucri e zavorra, nel lavorare la pietra egli è forse più ponderato ancora
Fra gli scultori svizzeri contemporanei sono in molti a sostenere che la pietra non dev’essere considerata come un semplice materiale amorfo a cui imporre un’ idea nata senza tener conto delle sue particolarità. Aletti non dissente, ma precisa (quindi insegna, poiché senza ostentare troppa convinzione riesce pur sempre a convincere): questa massima viene quasi sempre fraintesa. Rispettare le caratteristiche della pietra non significa che di una pietra pesante, dura e ruvida si debba per forza esaltare l‘ idea della pesantezza, della durezza e della ruvidità.

Tutt‘ al contrario: ciò che maggiormente val la pena scovare e sublimare sono le proprio prerogative meno evidenti. La pietra non solo ha una sua struttura materiale, ma ha anche una sua storia, e di questa sua storia, dal momento dell’ impatto con l‘ artista, vengono a far parte anche il suo pensiero e la sua percezione. Lo spirito del‘ artista diventa inscindibilimente parte della pietra, prima ancora che essa diventi scultura. Le forze della natura, che durante i millenni hanno forgiato sia la struttura microscopica che quella macroscopcia di un masso, trovano una continuazione nella mano dello scultore: per il momento sarà un‘ ultima annotazione in un lungo curriculum.. L‘ idea dell‘ imponderabile, l‘ idea della morbidezza, del movimento, della metamorfosi, della trasparenza, addirittura l‘ idea del fuoco, dell’ aria, dell‘ acqua – da questo punto di vista – sono parte intrinseca della pietra e della sua storia. L‘ idea dello stupore, dell‘ erotismo, della speranza, dell‘ angoscia vengono ad aggiungersi nel momento in cui la pietra comincia dialogare con l‘ artista; e finalmente – anticipando la percezione dell‘ osservatore – affiora l‘ idea dell‘ incertezza, della connivenza, della divergenza, della propensione o del rifiuto.
È tramite questo modo di lettura che il linguaggio disadorno di una scultura apparentemente ermetica e introversa come quella di Aletti, riesce a diventare poesia e pregnanza, anzi: riesce a suggerire racconti, parabole, enigmi – per non far cadere nell‘ oblio assoluto un aspetto che in questa breve presentazione, purtroppo, viene trascurato – degli scherzi deliziosi, perché dall‘ opera di Aletti, sotto voce e con moderazione, ma con la costanza di un bordone, risuona una nota di raffinato umorismo.
Certo che con tanto ritegno Aletti un rischio lo corre: la sobrietà rischia di esser considerata come povertà d‘ idea, non mancheranno quelli che confondono semplicità con incapacità, e il rifiuto di accodarsi a mode e movimenti qualcuno lo tacerà di superbia se non addirittura di ignoranza dell’ arte contemporanea; un pericolo di cui l‘ artista è pienamente consapevole, ma che difficilmente lo indurrà a desistere dalla sua costante e tenace ricerca di pensieri e concetti errati ( anche propri) da smascherare. Su questo non ci sono dubbi: come avrebbe altrimenti potuto nascere quel gesto artistico di così rara bellezza intitolato „Venus“?

“A cielo aperto”

2011

Chi rimane toccato dal Cuore di Pietra di Daniela M. Guggisberg ancor prima di averlo toccato, intuisce il significato di «pietra tenera». Ecco l’ossimoro, l’incontrarsi e il fondersi degli antonomi. Daniele Aletti insegue il contrasto rinvenendo un senso dalla lettura delle proprie sculture e confidando nei propri sensi. Così dall’approccio di Daniela e di Daniele, dall’approccio di ambedue con la pietra — dall’approccio delle rispettive culture, delle lingue, dei linguaggi — ne scaturisce un connubio di schietta individualità. Qualcosa che, al di là di apparenti similitudini, si rivela essere indomabilmente singolare: diverso fino a confondersi.
Che scrutando le opere ci si voglia abbandonare oppure opporsi allo sfiorare, al toccare, al palpare, agli equivoci, ai contrari, alla sensatezza e alla sensualità, mai si riuscirà, tuttavia, a sottrarsi alla tensione che le pulsazioni di questa stella binaria cagionano.
La tensione persistente fra il proposito di Daniele, da un canto, di strappare alla pietra poesia e narrazione, e, dall’altro, il discorso filosofico di Daniela tramite la pietra, è nel contempo vincolo e liberazione. Una tensione feconda che va sostenuta

— sotto lo stesso tetto, o per l’appunto: a cielo aperto.